L’uccellino in gabbia. Riflessioni di una terapeuta in quarantena.

Chiedi ad un uomo di accomodarsi su una sedia. Non avrà difficoltà nel farlo e potrà restarci per il tempo che desidera, anche piuttosto lungo, senza problemi.

Chiedi allo stesso uomo di stare seduto immobile su quella sedia, senza muovere un solo muscolo. Poco dopo l’inizio del compito inizierà a sentirsi rigido, gli pruderà il naso, un capello gli solleticherà il volto e sentirà un’irrefrenabile voglia di muovere anche solo una mano. Resisterà poco.

Sulla parete del mio studio di psicoterapia è presente un adesivo murale che mi è molto caro e che sono solita utilizzare durante le sedute. Vi è un bel ramo, che si divide in più diramazioni, sul quale sono poggiati alcuni uccellini colorati, in diverse posizioni. Pochi altri sono in volo. Un solo uccellino è chiuso in una gabbia, appesa al ramo.

Quando chiedo ai miei pazienti di proiettarsi in uno di quegli uccellini, molti di essi mi dicono: “Quello in gabbia”. La difficoltà che stanno attraversando in questo particolare momento della loro vita dà loro la sensazione di essere in una gabbia. Alcuni di loro la gabbia se la costruiscono da soli, perché attraverso l’evitamento ricavano la (falsa) illusione di aver sconfitto l’ansia, tuttavia non riescono a farne a meno. Altri ancora hanno attorno a sè delle sbarre “emotive”, evitano il contatto profondo con l’altro e (per ragioni che richiederebbero un articolo a parte) fuggono persino da quello fisico: “Non mi piacciono gli abbracci, non mi piace quando mi toccano”.

Oggi riflettevo su questo. La situazione che stiamo vivendo in questo periodo storico ci tiene forzatamente (ma per giusta prevenzione) tutti chiusi in gabbia. Come quell’uccellino. Per una volta possiamo, io per prima da terapeuta, toccare con mano cosa possa significare sentirsi in gabbia. Che si tratti di una metafora o di una condizione reale poco importa: la differenza è davvero minima, ed a volte le situazioni possono persino dirsi sovrapponibili.

Vi sentite in prigione, avete una gran voglia di evadere. “Porto a spasso il cane”, leggo sui social. Avete voglia di guardare negli occhi (dal vivo) vostra madre, padre o magari vostra nonna. Potete farlo in videochiamata, ma, vi sarete accorti, non è la stessa cosa.  E’ una mera illusione di contatto: siete apparentemente vicini, ma paradossalmente questa fittizia vicinanza vi fa sperimentare ancor più la distanza. Ti vedo ma non posso toccarti, e questo è altamente frustrante. Anche se non ci siamo mai abbracciati in vita nostra, anche se a me “non piacciono gli abbracci”. E’ la mancanza della libertà di poterlo fare ad essere frustrante.

Noi, abituati a tenere il capo chino sui nostri cellulari, proiettati in un mondo di connessioni virtuali, siamo oggi costretti a farlo. Siamo costretti a fare solo questo. Ebbene, trovo che possa rivelarsi meravigliosamente terapeutico. Quando tutto questo finirà, ci riaffacceremo al mondo, agli altri, con una consapevolezza diversa. Quando saremo in treno o in metro, magari, ci penseremo due volte prima di chinare il capo sullo schermo di un cellulare e scopriremo che tenere la mano alla nostra amica, a nostra zia o semplicemente sorridere all’uomo di fronte a noi è un atto decisamente più piacevole ed appagante. Quando ceneremo con il nostro partner, lasceremo il cellulare in tasca o in borsa, per tenergli/le le mani, riscoprendo la bellezza del guardarsi negli occhi, riscoprendo l’incredibile potenza comunicativa dello sguardo. E chissà, magari qualcuno abbraccerà sua zia o sua nonna per la prima volta.

E’ il mio augurio per tutti, che possiamo oggi osservare a fondo e toccare con mano la fattezza delle sbarre che ci circondano, per poter godere a pieno della libertà del contatto domani, e magari riuscire ad empatizzare con chi in “prigione” ci vive da sempre.

Dott.ssa Giannalisa Colasuonno

Psicologa Psicoterapeuta e Psicodiagnosta

Corso Umberto I, 26 Grumo Appula (Ba)

tel. 366 30 55 032

email: info@studiocolasuonno.com

www.studiocolasuonno.com

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