Quante volte, in preda ad una frustrazione o ad un dispiacere, ci siamo abbuffati di qualcosa di gustoso o abbiamo divorato un bel gelato al cioccolato? Capita spesso, capita a tutti, più o meno intensamente e più o meno frequentemente.
Il cibo è strettamente connesso con la sfera emotiva e si potrebbe affermare che ad un discontrollo dell’impulso a cibarsi corrisponda una sostanziale incapacità di gestione delle proprie emozioni (per lo più inconsapevoli). Così, l’abbuffata (o parimenti il rifiuto del cibo, anche con condotte di eliminazione) diviene il sintomo di qualcosa di molto più profondo, diviene una modalità comunicativa attraverso la quale si giocano contenuti molto intimi relativi al potere, all’autorità, alla libertà ed all’autonomia (De Pascale, 1987).
Mi capita spesso di essere contattata da pazienti in cura presso un dietologo/dietista, e quasi tutti riportano una frase simile:
“Dottoressa sono anni/mesi che seguo una dieta, ma non riesco a dimagrire.”
Ebbene, in questi casi le diete non funzionano perché il cibo ed il peso sono solo dei sintomi, non sono il problema. Quanto più ci focalizziamo sul sintomo, tanto più ci allontaniamo dal vero problema.
Immaginiamo un iceberg: ciò che si vede è solo una piccola parte di ciò che in realtà è celato sotto la superficie. Potremo scalfire e cercare di ridurre la parte emersa, ma non avremo risolto il problema, avremo solo sprecato energia.
Altre volte accade che alcuni pazienti mi contattino a seguito di un successo terapeutico presso un dietologo/dietista:
“Ho perso 15 kg. Pensavo che a dimagrendo la mia vita sarebbe cambiata, che sarei stata felice e serena. Ma ciò che è cambiato, in realtà, è solo il mio aspetto esteriore. Dentro sono sempre io, sono sempre arrabbiata e triste.”
Questo accade proprio quando si cerca di scalfire la parte emersa dell’iceberg, ignorando tutto ciò che è celato sotto le acque.
Ricorriamo al cibo illudendoci di poter, così, salvarci da ciò che ci tormenta, fuggire dalle emozioni che proviamo, dall’angoscia di essere come siamo o da tutto ciò che vorremmo non fosse ma che invece è. Così, utilizziamo il cibo come se fosse una droga, con il risultato che, terminato il “pasto”, siamo pervasi dal senso di colpa o comunque dalla sensazione che nulla sia davvero cambiato. Abbuffandoci, dunque, non facciamo altro che rafforzare il problema, imbrigliandoci in un circolo vizioso che amplifica lo sconforto e la frustrazione che ci pervadono nel profondo, oscurando sempre più il problema reale.
Come scoprire, dunque, cosa si cela sotto la superficie?
Alcuni pazienti hanno un’ottima capacità introspettiva e riescono facilmente a cogliere la vera natura del loro problema alimentare, ma a quel punto si rende necessario un intervento “esterno” professionale che guidi il paziente nel lavoro sul problema.
Alcune persone ritengono che comprendere basti per risolvere. A costoro riporto sempre la seguente similitudine:
“E’ come avere un dolore molto forte e contattare un dottore per comprenderne la natura. Comprendere la natura del dolore (un’appendicite), tuttavia, non basterà per star meglio: si renderà necessario un intervento chirurgico per poter eliminare la causa principale dell’infiammazione.”
Potremmo dire che medicarsi con il cibo sia come abusare di antidolorifici per poter guarire da un’appendicite.
La quasi totalità delle terapie che ho condotto relativamente ad un problema alimentare “emotivo” hanno permesso di svelare “la parte sommersa dell’iceberg”, permettendo in seguito un lavoro incentrato su di essa e la conseguente risoluzione definitiva del problema.
Bibliografia
De Pascale, A., L’obesità e il suo rapporto con la mente, in Di Nepi e De Pascale, 1987;
Di Nepi L. e De Pascale A., Dieta? Il senno di prima, Newton Compton, Roma, 1987.